Il sindaco Borchi racconta di suo padre Giorgio, noto e stimato a Firenze Porta Romana

Leonardo Borchi, sindaco di Vaglia, racconta di suo padre Giorgio. Articolo tratto da “Il Filo del Mugello“:

Che il ragazzo avesse la stoffa del “tosto” si era capito già dopo quella domenica di giugno del 1944. Era appena finita la messa alla parrocchia di Sant’Ilario. Gli uomini e le donne sciamavano sulla via Senese, quando un camion che portava dei soldati della Wehrmacht frenò bruscamente alla loro vista ed i soldati si gettarono a terra. Ci fu un fuggi fuggi da parte di tutti gli uomini. Anche il ragazzo, appena quindicenne, che a ragione non doveva temere niente, si rifugiò nel forno vicino, sperando in una inesistente uscita posteriore. Nascosto dietro i sacchi di farina, dovette accondiscendere alle preghiere del fornaio che lo supplicava di arrendersi per scongiurare le rappresaglie dei tedeschi.

Invano la sua fidanzatina, appena più grande di lui, con la sua cugina, implorò il soldato e lo tirò per la giacca urlando di lasciarlo andare. Dopo due giorni di prigionia al panificio militare (non gli portavano bene i panettieri), vide, dalla sponda di un camion, che lo deportava in Germania, il Cupolone, che scompariva dietro una curva della Bolognese e sentì montare dentro di lui la triste convinzione che non avrebbe mai più rivisto la sua città, la sua casa. Ma passato l’Appennino, quando il camion con i suoi cinquanta prigionieri, correva lungo la pianura padana, a Cento, vicino a Ferrara, prese coraggio e si gettò giù con altre due compagni. L’uomo più anziano si azzoppò, lui rimase indenne.
Fu così che fece ritorno a Firenze, dove si nascose di giorno in una soffitta aspettando ansiosamente gli alleati, che lentamente si avvicinavano alla città. Ma siccome aveva capito da che parte voleva stare, nottetempo con altri suoi coetanei sabotava la banda Carità, strappando i fili del telefono della villa in cima a via Foscolo, dove i fascisti torturavano i partigiani. Quando finalmente il primo carro armato inglese, uno Sherman, imboccò il viale Petrarca in direzione dell’Arno, vi saltò su con tre bombe a mano alla cintola, sottratte ai repubblichini. Cosa voleva fare?! Cosa poteva fare?!
Quando cominciarono a fischiare i proiettili dei cecchini ed i carristi si ritirarono in torretta chiudendo la botola… ”E’ meglio che mi butti giù!”. La fine della guerra si portò via la fame e la tristezza. Il ragazzo si irrobustiva, giocava a calcio nella neonata squadra del Porta Romana, finché una brutta nefrite minacciò di minargli la salute per sempre. Superò la malattia e si sposò la sua fidanzatina. Allora non lo sapeva, ma la frase di pragmatica: “Uniti finché morte non vi divida” sarebbe stata la sua sorte.
I tempi erano duri. Dopo aver tentato invano di seguire le orme del padre a finirsi gli occhi sul banchino di orafo, non faceva per lui, si era dato al commercio. Accompagnava lo zio a vendere per negozi. Cioccolata, biscotti… Poca provvigione, pochi soldi.
Intanto erano venuti due bambini, due bocche da sfamare a cui provvedeva più il guadagno della madre che cuciva abiti, che le sue rimesse. Ma il giovanotto ci sapeva fare, a mano a mano si conquistò i clienti. Ed arrivò la ditta giusta e la merce consona: vernici e spiriti. Le occasioni di incrementare il fatturato non mancavano. Un giorno fu ricevuto da un dirigente dell’ospedale cittadino più importante. Si prospettava una grossa commessa di alcool. Per fare il contratto, però, il dirigente fece capire che voleva per sé una percentuale, una bustarella. Il giovane non ci stette, gli facevano schifo certi modi. L’affare non si fece.
Comunque l’Italia cresceva, si costruivano case, si aprivano cantieri. Arrivò dopo la Lambretta anche la prima macchina: una Seicento verde bottiglia con le porte a vento. Nel traffico ancora rarefatto dell’epoca, il giovanotto fece mostra del suo carattere focoso (ne aveva dato prova anche sul campo da calcio). Un giorno, in piazza Vittorio Emanuele, una Topolino tagliò la strada alla Seicento. Lui ristrinse a bordo strada la macchina, scese lasciando sulla sua FIAT moglie e figlioli, prese per il buzzo il prepotente e lo sbatté sul cofano della Topolino, sotto lo smarrimento della moglie e l’imbarazzo dei figlioli.
Si era capito che era intollerante alle ingiustizie e che… andava per le spicce.
Coltivava anche una passione: andare a caccia con gli amici. O forse è meglio dire amava gli amici e la caccia era il pretesto, come le partite a carte al Bar Porta Romana o le battute di pesca o la cerca ai funghi. Comunque bastava stare per boschi e che si fosse con gli amici. Anche a costo di lasciare a casa moglie e figlioli.
“Babbo, hai qualcosa da recriminare nella tua vita? Qualche rimorso? Qualche rimpianto?”.
“No. Ho avuto una vita bella, ho fatto quello che mi piaceva… ”
Alla soglia dei novanta anni.
Ma siamo andati troppo avanti. Riavvolgiamo la storia.
I figli crescevano, con la mamma. Lui aveva troppe cose per il capo: “E poi i figlioli sono delle mamme! No?”. Almeno, fino a una certa età, se li devono trastullare loro…
Un giorno Piero gli fa una proposta: “Si mette su una squadra di calcio?!”. “E come la si chiama… ?”
“Sant’Ilario!”. Così fu ed in quella squadra approdarono subito i figlioli, i nipoti, gli amici dei figlioli. Da soli, i parenti, facevano più di mezza squadra. Poi si mise di mezzo anche Don Staccioli e Marignolle. La squadra nel 1964 si trasformò nel GS Porta Romana ed il campo sorse da “Bibe”.
Lui divenne subito presidente, Piero allenatore; cognati e parenti vari, massaggiatori(?), guardalinee, custodi, raccattapalloni. Per cinquantasette anni è stato dirigente del Porta Romana, quasi sempre presidente.
Da giovane era ancora più impulsivo che da vecchio. Da presidente erano più le volte che guardava le partite del suo Porta Romana dalle tribune che dalla panchina in campo. Era spesso squalificato.
Quella volta erano in trasferta alla Reman Audace: un campaccio tutto terra e sabbia, dove non ci sarebbero cresciute nemmeno le patate. Il figlio maggiore, che con il pallone non ci discorreva troppo bene, ma in compenso correva come un fulmine, all’ala destra.
L’arbitro interpretò un’azione, forse qualcuna di più, contro la squadra. Decisioni che non trovarono consenzienti il presidente, il nostro, ed il di lui cognato, certo Ghigo, che in quella occasione fungeva da massaggiatore; solo perché si era portato in campo un secchio di plastica con dentro dell’acqua ed una spugna da garagista.
All’ennesimo fischio contro, i due entrarono in campo, Ghigo con il secchio dietro. Il presidente argomentò la sua contrarietà, rispetto alla visione del gioco da parte dell’arbitro, afferrandolo per il bavero della giacchetta nera, mentre il cognato, inzuppata la spugna nell’acqua del secchio, ormai, ahimé, non troppo pulita, la strofinò sul muso… sempre dell’arbitro.
Entrambi squalificati per tutto il resto del campionato… E con il figlio maggiore mortificato che si nascondeva la testa dentro la maglia numero “7”.
E arrivò anche il sessantotto. Anche in casa sua. E prima ancora il 1966 ed il 1967… naturalmente. L’epoca della contestazione generazionale, in cui avere più di ventotto anni ti annoverava inappellabilmente tra i “Matusa” (da Matusalemme, vecchio, sorpassato, inadeguato).
I ragazzi, non più bambini, se da una parte avevano preso il carattere, cocciuto, del padre dall’altra masticavano tutt’altre idee. Così non si finiva una cena a dovere, nel tinello di casa, dove invece di sorbire la minestra in pace, volavano grida accese scorticandosi su temi di politica e di costume…
Urla di qua, urla di là e la mamma in mezzo a tentare invano di calmare gli animi.
Ben presto i ragazzi videro bene di farsi una loro casa ed una famiglia propria. Non c’era spazio per tutti fra le stesse mura. A casa rimase la figlia di diversi anni più piccola.
La vita ebbe allora un’accelerazione improvvisa. I figli ebbero anche loro figli e la cerchia della famiglia si allargò, si arricchì. Ed il nonno, pur non rinnegando il suo ruolo di padre padrone si addolcì, si fece più tenero con i nipoti, anche se continuava le sue zingarate con gli amici.
Finché un giorno la mamma si ammalò. Di una strana malattia, che all’inizio non aveva neanche una diagnosi precisa. I muscoli delle gambe perdevano tonicità. Reggevano malamente la postura eretta. Clinica a Firenze, Università di Pisa. Un nome si faceva strada. Un acronimo, SLA: Sclerosi Amiotrofica Laterale.
Malattia neurologica degenerativa.
La mamma cominciò a perdere la funzionalità delle gambe. E lui si ostinava a volerle far fare tutto. Come se tutto fosse possibile. “Ti porto io in spiaggia, con la carrozzina!”. Aveva steso, sulla sabbia, dalla casa, in pineta, al mare centinaia di metri di moquette, residuo di una copertura di un campetto da calcetto e la spingeva moccolando rischiando di farla ribaltare ad ogni passo.
E continuando a moccolare, si prese cura di lei anche quando le sue braccia cominciarono a non alzarsi più, fino a che anche i muscoli della gola si atrofizzarono e dovette essere tracheotomizzata. Un buco nella trachea, un tubicino che prendeva aria da una pompa sempre in funzione, un altro buco in pancia per far passare un altro tubicino per la nutrizione.
Dopo quattro anni di stenti su una carrozzella, rimanere inchiodata a letto per altri tre e lui che le aspirava il muco dalla gola con un’ altra pompa, che la puliva e le cambiava posizione (oddio i guanciali che non si riusciva mai a sistemare per darle una postura che non le procurasse dolore!), che le andava a coricarsi accanto la notte, per non riuscire mai a dormire….
“Ho avuto una vita bella!”…
Lui così si è espresso pochi giorni prima che fosse sedato, perché non dovesse sopportare il dolore, che il tumore provocava sempre più forte.
Gli avevano proibito di mangiare, l’intestino non aveva più funzionalità alcuna. Ma lui era energico, anche dopo venti giorni di soli boccioni di acqua arricchita da poche calorie.
“Io mi mangio un piatto di paste al sugo e, se muoio, pace. Questa non è vita!”.
Si comportava con la malattia come si era comportato sempre nella sua vita: voleva essere autonomo, essere lui a decidere, perlomeno a riaggiustare la situazione. “Dottore, ma un cucchiaino di gelato…?”
Non voleva nessuno in casa. Come era vissuto da solo in autonomia, da quando aveva perso la moglie, ora non voleva che nemmeno i figli gli stessero accanto la notte. Lo faceva per non essere di peso a loro e di conseguenza sentirsi libero lui.
Sapeva tutto della malattia, di come il tumore si fosse diffuso, del poco tempo che gli avanzava. Ma…” Mi vai a giocare questi numeri al Superenalotto. Portami a rinnovare il tesserino per la caccia…”
Coriaceo come lo era sempre stato ha resistito tre giorni sedato prima di morire.
Oggi gli abbiamo fatto il funerale. Lui si chiamava Giorgio ed era mio padre. No… mio babbo.
Con questo babbo combattente, scorbutico, ruvido, ma schietto e di quella generosità pudica che non ha mai voluto far trasparire, io figlio mi sono riconciliato quasi a quaranta anni. Quando, dopo aver ripreso a tirare calci ad un pallone negli amatori, non più ala destra, ma passato in difesa, mi sono accorto che non solo portavo sulla schiena il numero della maglia che era stato il suo, il “5”, ma che avevo dentro di me tanto di lui. Carattere, scontrosità, timidezza, irriverenza ed anche, sì, tenerezza.
Tutta roba che non è passata per parole, perché noi ci siamo parlati veramente poco.
“Babbo (e le parole non uscivano)… babbo, ti devo dire una cosa che forse non ti ho detto mai (“Ma perché faccio tanto fatica!”). Babbo… ti voglio bene…”
E lui, l’ultimo giorno quando ancora era vigile e sofferente, senza nemmeno aprire gli occhi, ma con un leggero sorriso…:”Anch’io”. Di più non poteva dire.
Ciao babbo, ciao Giorgio… vai in pace.

Tuo figlio Leonardo

© Il Filo – Idee e Notizie dal Mugello – 9 marzo 2016

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